👫 «Arcipelago di Tutte e Tutti» 👬
Ciao a tutti!
Sono Maria, ho 22 anni e frequento il Circolo Arcipelago da un paio d’anni.
Mi avrete visto negli spettacoli di Gioventù Bruciata Cremona e dietro al bancone nei fine settimana.
☢️ Oggi è giovedì 23 aprile e domenica sarà il 34° anniversario del disastro di Chernobyl e delle conseguenze che ha avuto nell’attuale Repubblica di Belarus, ai più nota come Bielorussia.
📖 Ho iniziato ad interessarmi al problema leggendo il saggio «Preghiera per Chernobyl» di Svetlana Aleksievich, premio Nobel per la Letteratura nel 2015, e ho deciso di dedicare la mia tesi di laurea ad una realtà bellissima scaturita da una catastrofe tanto terribile: le associazioni che si occupano di ospitare in estate i bambini bielorussi malati a causa delle radiazioni.
🔎 Per raccogliere informazioni mi sono recata in Bielorussia la scorsa primavera.
E qui di seguito vorrei raccontarvi cosa ho scoperto nel mio viaggio.
Lunedì 18 marzo
La prima impressione che ho avuto della Bielorussia, osservando la brulla distesa di terra scura che ne compone la campagna dal finestrino dell’aereo, è stata una greve malinconia.
Ho attribuito la sensazione al fatto che fosse una giornata di pioggia, anche se la maggior parte del paesaggio si rivelò una campagna in disgelo, con gli alberi spogli che emergevano dal terreno acquitrinoso. Un terreno che rispecchia la difficile storia del territorio che copre.
Nel tragitto dall’aeroporto all’albergo mi ha colpito molto l’assenza pressoché totale di edifici storici, mentre invece ho notato diversi grattacieli in cemento variamente decorati con murali variopinti risalenti all’epoca sovietica, che ne celebrano la grandezza mostrando le ricchezze che ha prodotto e celebrando le imprese dei suoi cittadini, uno su tutti Jurij Gagarin.
Devo essere rimasta in silenzio per un po’ perché a quel punto, in un italiano approssimativo, l’autista mi ha chiesto se mi piacesse il paesaggio.
“Sì, molto. E’ solo che… è tutto nuovo.”
Per nuovo intendevo semplicemente ‘diverso’ ma lui si è messo a ridere e mi ha indicato delle cupole dorate che proprio allora spuntavano tra il grigio del calcestruzzo, brillando cangianti in quella giornata uggiosa: “Sì, è tutto nuovo. Però lì c’è anche una cattedrale ortodossa. Molto grande, molto bella.”
Le cupole dorate della cattedrale di Tutti i Santi in mezzo al grigiore del cemento furono solo la prima di tante curiose sovrapposizioni che mi è capitato di scoprire. Come il logo di una celebre catena multinazionale di fast food americani che ha aperto una sede proprio sotto un altorilievo celebrativo della Solidarietà tra i popoli, nell’ex ‘Palazzo della Moda’, costruito nel 1967.
Martedì 19 marzo
Nella reception dell’albergo ho incontrato Larissa, responsabile della sede di Minsk dell’associazione “L’Albero della Vita”, che da anni si occupa di vacanze di salute per i bambini bielorussi.
Mi ha accompagnato presso la loro sede dove siamo state poi raggiunte da Margherita, Olga, e Natasha (nome di fantasia), le altre impiegate.
Ho notato che Olga aspettava un bambino e, nella tenerezza che mi ha suscitato, ho avuto un momento di paura e mi sono chiesta se fosse stato sano alla nascita. Mi ha colpito molto anche il loro perfetto uso dell’Italiano e soprattutto ricordo Natasha. Quando l’ho vista indossava un paio di pantaloni attillati neri e stivali con delle borchie decorative, “Di quelli che pure potrei indossare io tutti i giorni”, ricordo di aver pensato.
Soprattutto mi hanno colpito le sue parole, che ho riportato all’inizio di questo capitolo e il suo modo di fare schietto e sincero. Quando mi ha chiesto perché avessi scelto proprio questo argomento sono crollate tutte le idee e i pregiudizi che mi ero fatta prima di partire, e non ho potuto che risponderle con la pura verità: “Perché voglio che se ne parli.” E lei mi rispose con le parole che ho trascritto sopra.
Quando poi, tra un caffè e l’altro per smaltire il jet lag, chiesi a Larissa in che modo Chernobyl avesse colpito la Bielorussia lei rispose: “Siamo stati tutti colpiti.” E Natasha precisò: “Sì, ma non nel modo che intendete voi.”
Allora la responsabile ha proseguito spiegandomi che, nonostante ci sia stato un picco di malattie oncologiche negli anni dal 1990 al 2000, la situazione sembra in via di normalizzazione e che se i bambini, o gli adulti, si ammalano non è detto che sia a causa di Chernobyl: “A me per esempio fa spesso male una spalla. Sarà quello? Forse sì, più probabilmente no.”
Mentre facevamo conversazione abbiamo preso gli appuntamenti per la settimana.
Larissa ha suggerito che mi recassi a Gomel, capoluogo dell’omonimo oblast che fu tra i più colpiti dalla catastrofe per visitare un istituto in loco perché forse avrebbero potuto rispondere alle mie domande con maggiore precisione. Da Minsk, la capitale, a Gomel sono tre ore con un treno ad alta velocità, e l’appuntamento venne fissato per il giorno seguente, insieme a quello presso una casa famiglia di Minsk, fissato invece per il giovedì.
Margherita provvide ad acquistare i biglietti mentre Larissa mi aiutava a procurarmi una Sim-card con una connessione ad Internet perché le compagnie telefoniche estere non hanno appoggi in Bielorussia e le telefonate internazionali risultano molto difficili.
Mercoledì 20 marzo
Katia, la ragazza che Larissa ha contattato per accompagnarmi alla stazione di Minsk, mi aspettava in un taxi di fronte al cinema in disuso, dall’altra parte della strada rispetto al mio albergo.
Quando mi ha salutato ho scoperto che non solo parlava un Italiano perfetto ma aveva anche un forte accento del Sud. Di pochi anni più vecchia di me, mi ha spiegato che veniva in Italia da piccola per le vacanze di salute e che stava per concludere le pratiche per l’adozione da parte della famiglia ospitante.
Mi ha accompagnata fino sul treno e si è assicurata che trovassi il mio posto, per poi spiegare alla capotreno che non parlavo la lingua e mostrandole i miei documenti.
Dopo tre ore di viaggio sono arrivata a Gomel, dove ho trovato ad attendermi Anna, che lavora nell’istituto che avrei di lì a poco visitato e mi avrebbe fatto da interprete.
Nel tragitto dalla stazione all’istituto, sull’autobus, Anna mi ha raccontato di essere di Gomel e di essere stata ospitata da una famiglia italiana fin da quando era piccola e con cui è ancora in contatto. Sua madre è rimasta incinta poco tempo dopo il disastro di Chernobyl e lei è nata con una malattia della tiroide, non ha specificato quale. Mi ha raccontato anche che, negli anni immediatamente successivi al disastro, sono nati dei bambini con malformazioni somatiche evidenti e c’è stato un picco delle malattie oncologiche. Anche se oggi la situazione si è notevolmente ridimensionata, la terra rimane comunque ancora contaminata dalle radiazioni.
All’entrata dell’istituto, dopo che un impiegato ha visionato i miei documenti e mi ha fatto firmare un registro, ci ha accolte una ragazzina di circa tredici anni, che è corsa subito ad abbracciare Anna. Lei mi ha informato con un sorriso che: “Sono tutti così coccoloni, vedrai.”
La bambina ci ha accompagnate fino all’ufficio della direttrice ma si è fermata a debita distanza, per poi scomparire nel corridoio quando Anna mi ha fatto accomodare.
Nell’ufficio della direttrice sono stata accolta dalla psicologa dell’istituto, anche lei in grado di parlare bene l’Italiano, che hanno proceduto ad interrogarmi ripetutamente su chi fossi, sul perché fossi lì, che Università frequentassi, e perché il Dipartimento di Musicologia si occupasse di Storia Contemporanea.
In quella circostanza fu di particolare aiuto la lettera di accompagnamento dei miei relatori, controfirmata dall’allora Direttore di Dipartimento Giancarlo Prato, che confermava lo scopo del mio viaggio. A mensa, Anna mi avrebbe poi spiegato che la direttrice temeva fossi un ispettrice statale inviata a sorpresa con un pretesto e sotto mentite spoglie, come era loro accaduto altre volte.
Una volta risolti i dubbi sulla mia identità, la direttrice è stata più che disponibile nel rispondere alle mie domande.
Gli istituti come quello che ho visitato accolgono sia orfani nel senso stretto del termine ma in numero maggiore orfani sociali: nelle loro famiglie d’origine sono presenti problemi di alcolismo, malattie psichiatriche e povertà. Gli istituti statali si occupano del loro mantenimento e della loro educazione.
I problemi sopracitati, in particolar modo l’alcolismo, sono molto diffusi in Bielorussia – specialmente nelle zone rurali – esistevano da molto prima di Chernobyl e sono proseguiti dopo senza cambiamenti rilevanti. In seguito al disastro, si sono verificati episodi di malattie alla tiroide ed oncologiche nella regione e, dove necessario, lo Stato bielorusso ha provveduto a finanziare gli interventi chirurgici, le compresse di iodio e le terapie sostitutive della tiroide, ma nessuno dei bambini ospitati in questo particolare istituto ne soffre, tantomeno le loro famiglie.
Questo orfanatrofio in particolare ospita al momento sessantatré bambini e ragazzi dai tre ai diciotto anni, tutti provenienti dall’oblast di Gomel. I membri del personale assumono nei loro confronti il ruolo di figure genitoriali mentre instaurano percorsi educativi con le famiglie d’origine per permettere loro di riottenere la patria potestà.
Per garantire la miglior assistenza possibile sotto ogni aspetto all’interno della struttura collaborano medici, psicologi, pedagogisti ed assistenti sociali. Se hanno bisogno di cure specialistiche i ragazzi vengono accompagnati negli ospedali, dove vengono curati gratuitamente.
I più piccoli seguono le lezioni all’interno della struttura e i più grandi frequentano la scuola a pochi passi da essa, appena oltre il cortile. Di norma il percorso scolastico dura dieci o undici anni, ma in caso di difficoltà nello studio i ragazzi vengono mandati in una scuola professionale già dopo i primi nove.
In tal caso andrebbero ad abitare in convitti per studenti ma il personale dell’istituto avrebbe la possibilità di seguirli ancora per due anni. I ragazzi dell’istituto hanno diritto ad agevolazioni statali per le abitazioni, le scuole, ed i convitti. Questo diritto viene sancito da tessere che attestano la loro provenienza da zone colpite dal disastro di Chernobyl.
Al termine del percorso d’internato ai ragazzi viene richiesto di presentarsi due volte l’anno per dei check up, ed il personale si tiene spesso in contatto con loro mediante i social media.
C’è una ex ospite dell’istituto che si è laureata in Pedagogia ed ora insegna Educazione Fisica nella scuola antistante la struttura.
L’istituto viene paragonato dalle mie interlocutrici ad un “sanatorio”: ai bambini viene garantito del cibo sano, proveniente da zone non contaminate, e sono particolarmente attivi nel settore delle vacanze di salute perché i piccoli ospiti hanno necessità di respirare aria pulita onde poter rinforzare le proprie difese immunitarie.
Le mie interlocutrici mi hanno spiegato che l’esperienza di accoglienza nelle famiglie italiane è molto importante per lo sviluppo educativo dei loro ospiti. E’ importante per loro sperimentare la vita di una famiglia “normale” e creare legami perché spesso si trovano da soli ed è utile per loro sentirsi accolti ed amati anche se il rischio, per le famiglie, è di esagerare in senso opposto e di viziarli troppo. Lo stile di vita che hanno in Italia, dove i nuclei famigliari ospitanti hanno maggiore disponibilità economica, è molto diverso da quello che hanno in Bielorussia ed è importante mantenere la giusta misura.
Le vacanze di salute sono regolate da particolari contratti tra istituti ed associazioni, quello che ho visitato è collegato nello specifico con “L’Albero della Vita” di Minsk.
Terminata la conversazione, la direttrice mi ha invitata a presenziare alle prove di ballo nel teatrino dell’istituto. La psicologa mi ha spiegato che a breve si sarebbe tenuto un festival a Minsk in cui i bambini di diversi istituti si sarebbero sfidati in gare di canto e ballo.
Dopo di che, lei stessa mi ha accompagnato a visitare la mensa, la sala giochi, alcune aule e la punta di diamante dell’istituto: una stanza sensoriale per la terapia comportamentale.
Già solo la penombra della camera, unita alle pareti verde bottiglia, invita al rilassamento ma l’obiettivo viene raggiunto mediante dispositivi all’avanguardia atti a stimolare i sensi del paziente ed aiutarlo a calmarsi. La mia guida mi ha spiegato che la sua più grande soddisfazione è vedere i ragazzi rilassarsi fino a scivolare nel sonno grazie alla terapia sensoriale. Nonostante la stanza sensoriale sia adibita ai colloqui con la psicologa, spesso capita che anche gli educatori ne facciano uso per allentare la tensione di una giornata di lavoro.
Al termine della visita la psicologa mi accompagna alla mensa del personale dove mi viene proposto il pasto comune del giorno, lo stesso per bambini ed educatori: minestra di piselli secchi, polpette di carne ripiene di patate con la panna acida, pane di segale, e piselli bolliti.
Davanti alla tavola apparecchiata ho un momento di esitazione: in parte per il timore di approfittare troppo delle risorse economiche dei miei ospiti, in parte perché trattandosi di prodotti locali ho il timore che siano in qualche modo contaminati.
La psicologa sembra leggermi nel pensiero e si affretta a rassicurarmi: “Non preoccuparti: è tutto pulito.”
Mentre pranziamo, la psicologa mi ha raccontato di aver imparato l’Italiano per accompagnare i bambini dell’istituto nelle vacanze di salute a Bologna, dov’è rimasta molto colpita dallo sfarzo della festa patronale.
Ci scambiamo aneddoti per un po’ quando nella stanza è entrata la direttrice, impeccabile nel suo tailleur ma evidentemente di fretta. Mi ha salutata calorosamente e si è scusata sia per il malinteso, sia per non essersi potuta fermare a pranzo, ma di lì a poco avrebbe dovuto accompagnare Anja a fare una visita. Anja, una bambina paffutella dai capelli biondo cenere ben avvolta in un piumino e con un berretto ben calcato sul capo, è entrata a fianco della direttrice e si è subito precipitata ad abbracciarmi urlando: “I love Italia!” Per poi offrirmi un otto ritagliato nel cartoncino blu con un fiore in cartoncino arancione e giallo incollato sopra, tutt’ora il ricordo per me più caro di quel viaggio.
Congedate la direttrice e la psicologa sono rimasta sola con Anna, che mi ha raccontato anche alcuni lati spiacevoli del lavoro nell’istituto.
Mi ha spiegato che Anja ha dei problemi comportamentali che la portano ad avere atteggiamenti a volte preoccupanti. Lei e molti altri ospiti “hanno dentro un ‘negativo’ che non riescono ad esprimere” mi ha detto “loro non sanno cosa sia il sesso, per esempio.” E se hanno subito abusi non sempre lo riescono a spiegare.
La testimonianza di Tatiana
Quella sera, essendo Katia impossibilitata a riaccompagnarmi in albergo, trovai ad attendermi al binario una giovane donna, di cui sapevo solo avrebbe indossato un piumino rosa. Anche lei parla italiano perché fa da interprete ai bambini durante le vacanze di salute a Genova.
Dopo esserci presentate ed essere uscite dalla stazione, mi ha chiesto cos’avessi fatto all’istituto e cosa mi avessero raccontato e, dopo aver sentito la mia esperienza, ha proceduto a raccontarmi la sua. Era convinta che la direttrice mi avesse dato delle informazioni edulcorate: “Ma non è colpa sua,” ha poi aggiunto “è che qui da noi dev’essere sempre tutto segreto, tutto nascosto.”
Di seguito riporto stralci delle nostre conversazioni, che ho rielaborato sotto forma di intervista.
Cosa mi puoi raccontare di Chernobyl? Qual è stata la tua esperienza?
Nessuno ha detto nulla. Lo abbiamo scoperto per caso, perché mio padre, che si opponeva a Gorbačëv, ascoltava la radio di nascosto. E’ stata la pioggia a portare le radiazioni, Minsk era meno sporca di altre zone ma comunque lo era. Il giorno dopo sono uscita sotto la pioggia per giocare con le mie amiche ma avremmo dovuto restare in casa.
Adesso sono preoccupata perché stanno costruendo un nuovo impianto appena fuori Minsk. Spero non succeda niente.
Ci sono stati dei cambiamenti dopo Chernobyl?
I miei genitori si sono entrambi ammalati di tumore e sono morti. Praticamente ha saltato una generazione: la mia no, ma già quella successiva ha un sacco di problemi. Dal 2006 c’è stato un picco continuo dei casi di tumore, soprattutto nei bambini, in tutta la Bielorussia. Sappiamo che è Chernobyl perché prima non erano così tanti. Hanno dovuto costruire un ospedale apposta appena fuori Minsk. Tu non andarci. Ti proibisco di andarci. Fossi stata tua madre ti avrei anche impedito di venire qui.
Secondo te, la realtà degli istituti funziona?
Spesso voi Italiani quando pensate alla Bielorussia pensate che questa sia… che ne so… l’Africa, ma non è così. In realtà il sistema degli istituti funziona molto bene e adesso anche molte famiglie della Bielorussia hanno iniziato ad accogliere. Alcuni solo per soldi, altri perché vogliono aiutare.
Giovedì 21 marzo
Davanti alla sede dell’ “Albero della vita” trovai ad attendermi Marina, ospite della casa famiglia che avevo in programma di visitare quel giorno. Aveva appena terminato le lezioni di Italiano.
Sia lei che altri suoi fratelli affidatari hanno avuto un primo impatto con la lingua grazie alle vacanze di salute in Italia ed è stato straordinario sentirla parlare con uno spiccato accento laziale mentre mi ha accompagnata in un quartiere residenziale, verso la periferia di Minsk. Una foresta di condomini in cemento, ciascuno contrassegnato da un numero e con un suo cortile. Mi ha stupito l’assoluta mancanza di cancelli e recinzioni.
Salite all’appartamento, Marina mi ha fatto togliere le scarpe, perché non è uso portarle in casa.
La sua madre affidataria, una donna in leggero sovrappeso ed un carattere esuberante che chiamerò Olga, infatti era in calze quando ci ha accolte. Subito mi ha squadrato in altezza e larghezza e ha pronunciato una parola, in Italiano: “Piccolina.”
Poi ha proceduto ad assicurarsi che mangiassi a sufficienza e che prendessi almeno due ciotole di minestra di barbabietole con la panna acida, che almeno assaggiassi le crespelle di pane e che accettassi i cioccolatini che mi offriva. “Sono prodotti in Kazakistan.” mi hanno detto. Un lusso per loro.
Come già la direttrice, anche Olga ritiene che non ci sia un legame tra Chernobyl e i problemi sociali della Bielorussia. Secondo lei le persone bevono perché non sanno gestire la vita. I genitori sono iperprotettivi o del tutto assenti, e i ragazzi non sanno gestire la vita.
Lei e suo marito ospitano dodici ragazzi dai cinque ai trentadue anni. L’affido non è temporaneo: i ragazzi restano nella casa famiglia fino a che non sono in grado di autosostentarsi e, nel frattempo, sperimentano cosa sia una vera famiglia. Lei fa in modo di renderli quanto più indipendenti possibile: appena sono abbastanza grandi i suoi ragazzi vanno da soli in banca, dal medico e a fare commissioni, per imparare ad autogestirsi.
Nonostante lo scetticismo di Marina in merito, Olga mi ha raccontato di aver ospitato la figlia di un liquidatore. Un vigile del fuoco che era stato mandato alla centrale per spegnere l’incendio.
La moglie aveva abbandonato lui ed i due figli, che sono rimasti soli quando lui è morto per le radiazioni. La figlia si è suicidata ed il figlio è finito in carcere.
“A Chernobyl sono andati i migliori: medici, soldati, pompieri e ricercatori. Molti di loro adesso sono morti.”
Secondo Olga negli istituti mancano l’affetto ed il calore che solo una vera famiglia potrebbe dare. Perché lì lavorano degli specialisti ma non si creano dei veri legami. Pensa che i ragazzi non rielaborino i traumi che hanno subito, non ricevendo l’affetto di cui hanno bisogno.
Mi racconta le storie dei suoi bambini: Anja , ricoverata in un istituto dove ritenevano avesse una malattia mentale ma è solo un carattere particolarmente vivace, Karina che ha la madre sieropositiva in carcere ma ancora in possesso della patria potestà, due fratelli la cui madre è da poco uscita dal carcere ma ha rinunciato alla custodia perché non potrebbe mantenerli.
La casistica è la stessa che negli istituti ma la differenza è che Olga non si occupa dei ragazzi per lavoro, lo considera invece “una missione della vita” a cui si dedica con tutta sé stessa perché ha sempre avuto il desiderio di aiutare. Per lei è importante soprattutto che si sentano amati.
Ha detto che però non intende andare avanti a farlo per molto, forse solo per altri due o tre anni. In parte perché l’età le rende difficile proseguire ma anche perché le ispezioni dei funzionari statali diventano sempre più rigide e lei fatica a tenere il passo.
Le rincresce in particolare il fatto che le sembrano ragazzi che hanno studiato solo la teoria ma non hanno esperienza diretta.
“Ma se non hai un figlio come puoi giudicare? Come puoi parlare della pizza senza averla assaggiata?”
Oltre gli scherzi, Olga teme che senza il suo aiuto i ragazzi finiscano di nuovo nel disagio delle loro famiglie d’origine o in un istituto.
E’ anche convinta che le vacanze in Italia li aiutino molto dal punto di vista educativo ma soprattutto che giovino loro in fatto di salute e una sua figlia adottiva conferma, in perfetta inflessione partenopea.
Io penso che sia lei a fare il grosso del lavoro, prendendosi cura dei suoi ragazzi come sta facendo.
La testimonianza di Marina
Marina ha diciannove anni, ha conseguito un diploma in Commercio alla scuola professionale e vorrebbe lavorare in Italia, è riuscita ad entrare in contatto con delle persone che sarebbero eventualmente disposte ad assumerla ma prima deve prendere la certificazione del livello di lingua italiana. Per ora sta facendo tirocinio, con turni di dodici ore per due giorni consecutivi e poi due giorni di riposo, per una paga poco più che simbolica.
Com’è la vita in Bielorussia?
Non mi ritengo una persona patriottica, non sento di amare la mia terra. Non vedo una vita futura qui. Lo stipendio medio si aggira sui centocinquanta euro mensili, forse le comuni sono un po’ meno care ma per il resto il costo della vita è simile a quello che avete in Italia. Se non si ha un lavoro ufficiale si devono pagare le utenze a prezzo pieno. Quasi tutti hanno almeno un debito, lavori per tutta la vita e alla fine non ti puoi permettere neanche un monolocale. La gente è cattiva per questo. Così non si vive, si sopravvive e basta.
Qual è stata la tua esperienza con le vacanze di salute?
Da bambina ero spesso malata. Secondo te perché? (ride) Sono passati trent’anni ma tutto deriva da lì. Tu non ti rendi conto di quanti di quei… cosi ci siano nell’aria: è tutto inquinatissimo. Ogni due settimane avevo la febbre. Da quando vengo in Italia sto meglio: c’è il sole, il mare e le montagne che qui non abbiamo. Saranno due anni che non mi ammalo più! Il problema è che le famiglie a volte accolgono i ragazzi già con l’intenzione di adottarli, ma cosa sanno loro di cosa voglio io?
Ad ospitarmi per prima è stata una coppia di persone già avanti con gli anni e piuttosto retrogradi. Avevano avviato le pratiche per l’adozione dando per scontato che fossi d’accordo, per fortuna sono riuscita ad impormi. Se non riusciamo ad andare d’accordo non se ne fa niente.
Venerdì 22 marzo
“Meglio vedere una volta che ascoltarne cento”
Intervista a Sua Eccellenza l’Ambasciatore italiano in Bielorussia Mario Baldi.
Signor ambasciatore, quali sono ad oggi i rapporti bilaterali tra Italia e Bielorussia?
I rapporti bilaterali tra Italia e Bielorussia sono economici e politici, ma anche culturali. Esiste uno stretto rapporto di cooperazione e relazione umanitaria.
Sono particolarmente importanti i programmi di risanamento terapeutico post- Chernobyl. Rapporti di accoglienza ed assistenza che spesso si trasformano in adozioni internazionali. Si creano legami che spesso portano le famiglie a finalizzare l’adozione. Soprattutto sono rivolti agli orfani sociali, bambini che hanno ancora i genitori naturali viventi ma abitano in istituti o case famiglia. Questi programmi precedono l’indipendenza della Bielorussia, che è stata raggiunta solo nel 1991 con lo scioglimento dell’URSS. Le prime azioni di assistenza sono iniziate già nel 1986 anche se il programma vero e proprio è stato costituito negli anni ’90. Da allora in Italia sono stati ospitati più di cinquecento mila bambini. Molti imprenditori, politici, diplomatici ed intellettuali bielorussi di oggi sono stati bambini inseriti in questi progetti.
Il programma di assistenza umanitario ha avvicinato i due popoli anche dal punto di vista culturale e sociale perché i ragazzi diventano piccoli ambasciatori dell’Italia in Bielorussia e della Bielorussia in Italia. I loro viaggi contribuiscono allo sviluppo del commercio ed alla diffusione dell’Italiano all’estero.
I Bielorussi hanno come immagine dell’Italia quella di un Paese generoso perché le famiglie italiane accolgono i bambini senza nessun apporto economico da parte del Governo. Le famiglie ospitanti non ricevono alcun sostegno economico.
Anche questi programmi hanno purtroppo risentito della crisi economica degli ultimi anni. I numeri sono calati pur essendo ancora presenti ed attivi. Addirittura alcune famiglie vengono qui a visitare i bambini che avevano ospitato, ormai diventati grandi.
Qual è il ruolo del nostro Governo in questi progetti di assistenza?
Solo perché lo Stato non finanzia questi progetti non significa che non li controlli. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è a capo del programma e controlla che le associazioni rispettino i parametri stabiliti. Sul sito ufficiale del Ministero viene pubblicato ogni anno un rapporto annuale sui programmi d’accoglienza, immigrazione, e politiche d’integrazione. Nel 2017 il numero dei bambini accolti è stato di settemila ma i numeri sono in calo per via della crisi.
I bambini possono venire in Italia solo quando la scuola in Bielorussia è chiusa e possono restare solo per un numero prestabilito di giorni, poi devono tornare. L’ambasciata italiana rilascia visti ai bambini solo quando questi sono inseriti in un programma.
L’associazione ad oggi più attiva per questi programmi di assistenza si chiama ‘Insieme per un futuro migliore’, la direttrice è la signora Arena Ricchi.
Perché proprio i bambini?
La radioattività colpisce soprattutto i bambini perché, essendo in piena crescita, si sviluppano assorbendola. L’idea è ridurre l’esposizione permettendo loro di respirare aria pulita. La Bielorussia non ha la disponibilità economica per garantire un’assistenza sociale come quella italiana, per questo sono molto grati dell’aiuto che offriamo e come Governo si sta cercando di aiutare e valorizzare questa dimensione umanitaria.
Da quanto questi programmi sono attivi?
Subito dopo Chernobyl sono partiti dei convogli di aiuti umanitari e le associazioni, pur nella difficoltà dei rapporti durante l’URSS, hanno iniziato ad intessere relazioni con gli enti locali bielorussi. Addirittura fu organizzata una biciclettata dall’associazione ‘Aiutiamoli a vivere’ di Federico Pacifici, che arrivò fino a Minsk.
Se ti può interessare ti consiglio di vedere il film Nascono i fiori, del regista Mauro Bartoli. Si tratta di un cortometraggio sull’accoglienza, sono testimonianze di ragazzi bielorussi che raccontano la loro esperienza.
Nessuno sapeva bene cosa stesse accadendo in Unione Sovietica, i primi a dare l’allarme furono gli Svedesi. Per tre giorni gli stessi abitanti della zona circostante Chernobyl furono tenuti all’oscuro e tantissimi furono contaminati.
Questo programma è un fiore nato dalla tragedia, un fiore all’occhiello del nostro Paese. Perché l’Italia è e rimane un Paese dal cuore grande, ce lo dicono gli alti e ne dobbiamo essere consapevoli ed orgogliosi: l’Italia è un Paese che accoglie.
Sai, c’è un detto qui in Bielorussia che dice: “Meglio vedere una volta che ascoltarne cento” e credo che tu in questi giorni abbia fatto questa esperienza.